top of page
Immagine del redattoreEnrico Antonio Cameriere

Renoir - DI GILLES BOURDOS




Qualche giorno fa sono stato per l'ennesima volta al museo del Novecento a Milano. Al solito mi trovo davanti ai quadri di inizio novecento e al solito mi commuovo. Quello che più mi tocca di questo vitale periodo artistico è il pensare che mentre era in corso una guerra furiosa e il mondo era devastato dal brutto, alcuni artisti erano concentrati sul bello. A questo pensavo, mentre vedevo Renoir. E questo tema è anche dichiarato esplicitamente nel film (ambientato nel 1915) quando Renoir dice “...eppure al fronte dovremmo andarci solo noi vecchi e malati e non i giovani.”



La pellicola rende il senso della luce dei quadri di Renoir, sembra di entrare dentro le pennellate dei suoi quadri. L’immagine è sempre alla ricerca di un bilanciamento tra le varie temperature colore, spesso portate al limite della forzatura, ma non è mai uno sterile gioco tecnico, è sempre una ricerca viscerale della forza della luce nelle sue varie componenti cromatiche.



Lo sforzo del direttore della fotografia ( Mark Lee Ping Bing, premio Cesar 2014 per questo film) è tangibile e ben riuscito. Un film così sensoriale che ti pare di sentire anche gli odori in mezzo al frinire dei grilli Nella campagna tutto e pervaso con un prorompente senso di carnalità eppure la morte la guerra aleggiano in mezzo a tanta bellezza.



Morandini gli attribuisce solo due stelline su cinque, ma non concordo. Non si tratta di un capolavoro, ma neanche di un film mediocre.



La figura del figlio (futuro regista), però forse rimane un po’ troppo nell’ombra sotto il profilo artistico, sembra non avere le enormi doti che avrebbe dimostrato in seguito, per i suoi film rimasti nella storia della cinematografia mondiale. Con questo non intendo, però cadere nell’errore di confondere il film che si vede con il film che si vorrebbe vedere. Ma Jean Renoir ci ha dato delle perle indiscusse quali Boudu salvato dalle acque o La grande illusione. Centrale per la sua cinematografia furono suo rapporto con Erich von Stroheim e con Luchino Visconti, l’uno il maestro, l’altro l’allievo. Anche il passaggio tra la staticità dei quadri del padre, al movimento del cinema, sarebbe stato importante da sottolineare, invece Jean appare solo sovrastato dalla figura del padre e dalla sua arte e passionalità.



Jean dirà «Ho l'impressione di essere un uccello ... un grosso uccello che becchetta i frutti dei più disparati frutteti [...] Sono stato felice. Ho girato dei film che ho desiderato girare. Li ho girati con persone che erano più che dei collaboratori, erano dei complici. Ecco, io credo, una ricetta della felicità: lavorare con persone che si amano e che vi amano molto.»

(Jean Renoir, Le passé vivant, pp. 121-122)

In quanto al padre, le ultime sue parole, mentre gli toglievano il pennello dalle mani, furono " Credo di incominciare a capire qualcosa "

15 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page