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Immagine del redattoreGiusva Branca

Nel 77 l'Italia sanguina con Bonnie Tyler, ma se c'è sangue vuol dire che c'è ancora vita...


Quando Gaynor Hopkins, in arte Bonnie Tyler, esce – a 26 anni – con “It’s a heartache” non si rende conto di quanto avrebbe inciso nell’immaginario collettivo italiano.

Il brano riscuote successo immediato negli Stati Uniti, probabilmente anche a causa del tono di voce dell’artista che, successivamente a un’operazione alle corde vocali, si riscopre con un timbro rauco, aggressivo, graffiante. Comunque caratterizzante.

E’ il 1977, probabilmente l’anno più difficile per l’Italia, un Paese a un passo dal buttarsi via stremato, tra ferme


nti traditi, contraddizioni evidentissime e una cifra di violenza – fisica e verbale – mai più riscontrata.

E’ un Paese smarrito e ormai privo di forza, di capacità di reagire.

O così sembra.

Eppure quella colonna sonora di Bonnie Tyler – per carità, coniugata con la musica d’autore italiana che leggeva, interpretava, cavalcava i momenti storici senza, tuttavia, avere la forza di deviare il corso del fiume, di cambiare il mood – diviene per una generazione di ventenni, trentenni, un segnale, una forma di resistenza.

Eppure è un testo che parla di un amore deluso, non più ricambiato, di un tormento, ma anche di un qualcosa di inevitabile, nel quale, in qualche modo, devi necessariamente passar dentro per andare oltre.

Quella colonna sonora per tanti, non so quanto consciamente, rappresenta la scossa, la forza per resistere e andare oltre, anche cambiando pelle.

Come lo stava facendo la giovane Nazionale di calcio di Enzo Bearzot, come un ragazzino con la faccia da compagno di scuola e il fisico da impiegato domenica dopo domenica disegnava, facendo gol su gol e sovvertendo – in anni nei quali il termine “sovversione” è dappertutto, scritto, praticato o parlato che sia –le gerarchie.

L’urlo di Bonnie Tyler ci rimanda a estati molto diverse; lontanissime da quelle di questi tempi ma che avevano anche preso binari lontanissimi da quelle patinate degli anni sessanta.

Le buone manie


re non sono più un valore, gli schemi tendono a saltare, i corpi – sempre più nudi – sono tirati quasi in faccia a tutti quasi per dispetto, per affermare il diritto di poterlo fare, prima ancora che volerlo fare per davvero.

E’ un’Italia sospesa tra il vecchio e un nuovo che nessuno si prende la briga di provare a governare realmente, con una borghesia asserragliata a difendere le sue rendite di posizione e una gioventù


che non sa cosa vuole ma capisce esattamente cosa non vuole.

“It’s a fool’s game”, canta Bonnie, e in questo gioco folle, forse stupido, si attorciglia un Paese senza identità.

Qualche mese prima l’Italia intera si è appassionata a Sandokan, in tv, secondo lo schema del più classico Salgari e ora – improvvisamente – si ritrova a metà strada tra un immenso Dario Fo che con “Mistero Buffo” in prima serata mette in crisi i dogmi perbenisti del Paese “casa e Chiesa” (o, se preferite, dei vizi privati e delle pubbliche virtù…) e Tony Manero che con “La febbre del Sabato sera” propone una via di fuga, una specie di uscita di emergenza dall’oppressione di quel 1977.

Molto presto, tante Bonnie Tyler entrano nelle case degli italiani attraverso programmi televisivi in qualche modo rivoluzionari come “L’altra domenica” e “Odeon, tutto quanto fa spettacolo”.

E Niki Lauda vinceva, mentre la voce di Bonnie graffiava e faceva sanguinare le anime degli italiani.

Ma se esce il sangue, vuol dire che ancora c’è vita.

E’ la prima regola…


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