Questo non è un pezzo di critica musicale (non mi permetterei mai!) né un saggio filosofico, né un tentativo di legare assieme sociologia, musica e letteratura. Questo è un tributo ad un amore durato diciannove anni dal 1997 al 2016 e che, in altre forme, continua ancora oggi.
Questo mio amore sono i Radiohead.
Ci sono delle band come i Beatles e Rolling Stones (tanto per stare sul retorico) che adoro, ma che assumono nel mio immaginario una dimensione quasi mitica, proprio perché non ero lì quando sono nate.
Altri gruppi che molto ho amato, erano già affermati nella metà degli anni ’80, quando ancora, con rispetto parlando, non capivo un cazzo di nulla.
C’è, per me, come credo ci sia per tutti, un periodo in cui le nostre tendenze, i nostri gusti, i nostri desideri, le aspirazioni, i difetti, le idiosincrasie, cominciano a strutturarsi in un “cosmo”, invece di seguire il flusso del “caos”, tanto da cominciare a farti affermare con sicurezza (dinamica) “questo sono io”.
L’età della ragione, più o meno.
Questo, in me, si è verificato a partire dal 1997 fino 2000, tra i 25 e i 28 anni.
Questo percorso ha avuto una colonna sonora chiamata Radiohead.
È stato il primo gruppo che ho visto esplodere “in diretta”, che si è sviluppato nel suo percorso artistico, in uno dei momenti di massima presa di coscienza di me stesso e della mia vita. E questo è il motivo per cui li ho amati in maniera tanto profonda.
Era il 1997, si diceva, avevo venticinque anni, stavo scegliendo l'argomento della mia tesi, stavo vivendo una relazione sentimentale con luci ed ombre e mi aggiravo per le calli e i campi di Venezia con meno ansie degli anni precedenti, ma sempre alla ricerca di una mia collocazione "esistenziale".
Ad un certo punto entrai in un negozio di dischi sotto casa mia, in campo S. Lio, e fui catturato da un ritmo cadenzato di chitarre, da un sottofondo elettronico e da una voce suadente che alternava un timbro pessimistico ad uno nostalgico. E ricordo che dissi: “Ecco ci siamo, adesso torneranno a vibrare le emozioni”. Perché in fondo la musica per me è sempre stata questo, un modo per tornare a “sentire”, per “riattivarmi”.
La canzone era “Karma Police”, pezzo in cui si teorizzava che gli agenti del karma si comportassero come la psicopolizia in 1984 di George Orwell, dove se pensi ciò che non devi, vieni arrestato. Nel video di questo brano fondamentale di Ok Computer, Yorke e soci fanno poi ribellare l’umano alla Polizia del karma, mostrando l'oscillazione tipica della loro produzione, tra alienazione e liberazione.
Ok computer arrivò come una bomba nel panorama musicale mondiale come nella mia vita, in un periodo storico dove per tutti, si alternavano la paura verso un mondo sempre più tecnologizzato e distante dalle istanze umane, e le speranze che l’ingresso in questa nuova era poteva offrire.
È un album rock, ma non è solo questo.
Il tema centrale di questa "concept opera" è la descrizione di un mondo inautentico guidato da valori fittizi. La realtà tecnologica non lascia spazio al desiderio, se non forgiandolo sui propri contenuti e adeguandolo alle proprie offerte.
Musicalmente il suono è nitido, preciso, la voce di Yorke fortemente evocativa; perfette le chitarre. L’effetto di straniamento è fornito dall'alternarsi di sovrapposizioni canore e inserimenti di voci elettroniche.
Mentre studiavo, nella mia tesi, l’alienazione in campo filosofico, i Radiohead me ne fornivano una rilettura post-moderna nell’ambito musicale a me più congeniale: il rock.
Di lì ad un paio di anni, dopo essere stati osannati come i “nuovi U2”, come la band che aveva fatto rinascere il rock; i Radiohead buttarono all’aria le carte e anche il tavolo, pubblicando in sequenza due album Kid A e Amnesiac dove veniva messa in discussione sia la forma canzone, sia la concezione di rock-band, sia il rock di per sé come modo di concepire la musica e di darle una specifica funzione.
I Radiohead divengono quel gruppo rock che “presagisce la morte del ruolo del rock (e non la morte del rock), lo spostamento del rock rispetto all’immaginario collettivo, la sua perdita di centralità”. (Stefano Solventi The gloaming).
Ma ogni cosa a suo tempo.
A cavallo tra il 2000 e il 2001 (annus horribilis dell’attentato alle Torri Gemelle), mi ritrovai a lavorare in un centro a 2100 metri d’altezza, dove cercavo di trasportare nella realtà gli ideali e i valori professati da studente. Mi “accompagnava” in quei giorni una ragazza inglese, che studiava ad Oxford, stessa città dei Radiohead (poi si dice i casi della vita!) In quella storia tutta istintiva, rinfrescavo il mio inglese accanto a lei, attraverso traduzioni di Every me and every you dei Placebo, Four season in one day dei Crowed house, e dulcis in fundo Creep e Fake plastic tree, dei Radiohead, (appunto).
La passione per gli ideali, per il luogo che mi ero scelto e per quella relazione molto combattuta, si esaurì, tra alti e bassi, nel giro di un anno.
Stavo passando il guado di quel periodo che Balzac definisce divinamente in uno dei suoi capolavori, come il tempo delle illusioni perdute.
Dopo il fallimento di quella esperienza, tornai nella mia casa, nella mia camera, tra i miei libri, con tutto da ricostruire. E pian piano cominciai.
E rincontrai i Radiohead di Kid A e Amnesiac.
Ma al primo ascolto, rimasi perplesso. Nei due album non era presente solo una forte dose di elettronica, ma in aggiunta si abbandonava la classica forma della canzone rock.
Col tempo e col senno di poi, ho capito che in quel momento, mentre io uscivo dal mondo sentimentale e sociale che era stata la mia “casa” per dieci anni, loro uscivano dalla logica di Ok computer e di una cultura che li voleva rockstar all’interno del music business.
Non solo: i Radiohead si immersero col nascere del nuovo millennio, nella tecnologia, che guidava ormai la logica del mondo e che sembrava prendere il sopravvento sul richiamo più intimo dell’uomo. Il gruppo di Oxford compì il tentativo di interpretare l’essere dell’uomo a partire dalla tecnologia, cioè quel fenomeno che nella realtà contemporanea, sembrava comprimerlo e schiacciarlo.
Fu quella, forse la prima volta, che oltre ad ascoltare della musica, dovetti studiarla.
Molti dei brani di Kid a hanno la caratteristica di essere poco intuitivi. Abbondano gli arrangiamenti sperimentali e le sonorità avanguardistiche create da sampler e software digitali, oltre che da strumenti elettronici risalenti agli inizi del ‘900 come le onde Martenot, di cui Jonny Greenwood, chitarrista della band, diviene un esperto.
Come già si è messo in evidenza l’abbandono della forma-canzone tipica del rock, viene sostituita dalla componente elettronica e dalle tecniche informatiche.
Di tutto questo Ideoteque ne è l’esempio lampante: la canzone è composta interamente da beat elettronici, sui quali si installa una sequenza melodica di poche note, ripresa da un frammento di Mild und Leise, composizione elettronica di Paul Lansky. Si creano poi effetti sonori particolari di disturbo come fruscii o distorsioni, detti glitch, prodotti da apparecchiature digitali, intervallati da stacchi melodici o ritmici. Questi effetti sonori, integrati nel contesto di un brano, rompono la continuità musicale e producono una nuova sonorità frammentaria, non priva però di una ulteriore unitarietà.
Il testo della canzone non poteva che essere oscuro, con una parte vocale ansiosa e opprimente e Yorke che ci conduce dentro un’imminente Era Glaciale, metafora, probabilmente, del nostro tempo.
Il ritornello ripropone invece la tipica oscillazione dei Radiohead tra disperazione e speranza: “Qui sono vivo. Qualsiasi cosa in ogni momento”.
Amnesiac, l’album successivo, nasce insieme a Kid A e si presenta come una ripresa e una rielaborazione degli stessi temi, in maniera meno radicale. Continua a frammentare il linguaggio del rock, nello stesso modo in cui la soggettività tradizionale viene frammentata dal mondo tecnologico post-moderno.
Qui c’è una delle canzoni che ho amato di più: Pyramid Song
L’arrangiamento si sviluppa su una base jazz; l’ingresso di archi e arpe, apre il brano ad un carattere quasi “sacrale”. Il digitale resta in sottofondo come le onde Martenot: la voce di York e il suo pianoforte rimangono il punto focale del brano che assume la forma di una visione e di una preghiera:
“Mi sono gettato nel fiume e cosa ho visto? Angeli dagli occhi neri nuotavano con me. Tutti coloro che avevo amato erano lì con me, il mio intero passato e i miei possibili futuri”.
Non dico niente su questo testo, che trovo pregno di enormi significati; mi limito a riportare un commento letto su Yuotube, mentre ascoltavo la canzone per preparare l’articolo: “Che canzone meravigliosa e piena di significato! L’ho cantata a mia nonna per il suo ottantesimo compleanno: lei ha capito tutto e mi ha detto: “È bellissima” “.
Finisco questa prima puntata sui Radiohead facendo una semplice riflessione: il gruppo di Oxford ha compiuto una scelta che si può riassumere in una frase: dentro la tecnica come esseri umani
(Continua……………….)
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