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Immagine del redattoreFrancesco Villari

25 maggio 1979 - GLI ANNI DI VASCO, IL CALABRONE

Aggiornamento: 17 nov 2021

Il successo arride sempre a chi segue le mode del momento, ma il trionfo è prerogativa solo di quelli che vanno dalla parte opposta.

Gli anni '80, il decennio più controverso della storia recente, sono stati l'esaltazione di un certo tipo di approccio, non solo musicale, legato alle nuove possibilità della tecnologia che consentiva anche a chi non aveva particolare talento nel produrre musica. È il trionfo dei sintetizzatori, delle produzioni computerizzate, delle piste infinite su mixer virtuali. Una fabbrica a gettito continuo di hit dance, tutte con l'agghiacciante cassa in quattro e il charlie in delay, perlopiù generati da una batteria elettronica. La musica d'autore di quegli anni era suggestionata dall'elettronica almeno quanto lo era il mainstream, ma la cosiddetta "new wave" si era formata alla scuola tedesca dei Kraftwerk e riusciva a manifestarsi in modo meno grottesco, anzi, talvolta addirittura straordinariamente creativo. È il caso dei Depeche Mode, degli Ultravox, dei Television, solo per fare qualche esempio, ma anche di mostri sacri "convertiti" come David Bowie e gli ex Joy Division, trasformatisi in New Order per affrontare il nuovo decennio orfani di Ian Curtis.

Ma nonostante il successo di queste e altre band di stampo elettronico (Simple Minds, A-Ha, Human League, XTC ecc.) a farla da padroni, curiosamente, sono gli U2. Gli irlandesi capitanati da Paul Hewson in arte Bono Vox, che in quel florilegio di tastiere e synth proponevano un rock nudo e crudo, fatto di chitarra, basso, batteria e pochi fronzoli. Niente campionamenti, niente cassa in quattro (per carità!), quasi completamente assente la tastiera, invece protagonista assoluta nella maggior parte dei coevi. Per trovare la new wave negli U2 bisogna attendere il quarto album "The Unforgettable Fire", il primo a passare per le mani di Brian Eno, che poi si esalterà nel successivo "The Joshua Tree". In pratica gli U2 raggiungono il successo planetario nell'era dell'elettronica, senza passare per l'elettronica (con "War" in particolare, l'album di "Sunday Bloody Sunday" e "New Years Day") e poi lo consolidano con incursioni new wave, quando la new wave sembrava già sul viale del tramonto.


Un atteggiamento anticlimax che ritroviamo anche in Italia con dinamiche non dissimili. Mentre la fabbrica di hit dance sfornava singoli di largo consumo e tormentoni estivi, spesso con nomi da "one hit wonder", la definizione che si riferisce a interpreti con un unico brano di successo all'attivo (vedi Baltimora, Gazebo, i Via Verdi o i Righeira, che però meriterebbero un capitolo a parte), a consolidare un successo duraturo era un ragazzo emiliano che aveva inventato una nuova figura, mai esistita prima in Italia: il "cantautore rock". E anche in questo caso facevi fatica a rintracciare allusioni al modello imperante, ammiccamenti all'elettronica o alle suggestioni new wave. Il rock di Vasco Rossi era quanto di più asciutto ed essenziale si potesse trovare in giro a quel tempo. Testi in linea con la grande scuola cantautorale italiana, ma piglio decisamente più duro e arrangiamenti smaccatamente allineati al rock classico.

Come si spiega tutto questo? Come è possibile che gli artisti di maggior successo degli anni '80, sia stranieri sia italiani, non avessero nulla a che fare con gli anni '80? Che logica c'è nel trionfo di band che non avevano alcun riferimento contemporaneo, semmai vicine a un concetto di rock dai più battezzato come "vecchio". Come sempre, ci viene in aiuto la storia. Il rock, secondo l'ormai cristallizzato luogo comune, è morto mille volte e mille volte è resuscitato. È morto con la fine dell'epopea del rock'n'roll ed è resuscitato con Dylan e la sua "svolta elettrica". È morto di nuovo con l'avvento del progressive per poi resuscitare ancora con il punk. Ed è morto con i synth anni '80, salvo tornare prepotentemente vivo con il grunge. Nel frattempo qualcuno si è accorto che in realtà il rock non muore mai, prende solo sembianze via via differenti. E il popolo rock sa aspettare, qualche volta va in letargo, si accuccia in un angolo osservando l'effimero successo di tutti gli altri, ben sapendo che si tratta di meteore passeggere, che prima o poi la cenere sotto il braciere tornerà ad appiccare l'incendio. E poi ci sono quelli che non se ne accorgono e mentre il mondo celebra l'ennesimo funerale del rock, imbracciano la loro chitarra e suonano l'unica musica che sanno fare, quella tramandata dai campi di cotone del Mississippi e da lì sempre in viaggio verso nuovi approdi. Gli U2 e Vasco Rossi somigliano alla metafora del calabrone, che per stazza e conformazione, secondo i più elementari principi dell'aerodinamica, non potrebbe volare. Solo che lui non lo sa e vola lo stesso. Loro non lo avevano mica capito che il rock era morto. Nossignore. Loro, ingenui, hanno continuato a suonarlo come se fossero ancora gli anni Sessanta e Settanta. Hanno continuato a calcare i palchi fatti di assi di legno inchiodate alla bell'e meglio e fare la loro musica, il rock. Solo che mentre gli altri si spegnevano insieme alle loro "one hit wonder" e venivano presto dimenticati, quel rock non smetteva di lasciare il segno e tutti coloro che ne stavano seguendo il feretro, piano piano, uno alla volta, lasciavano il corteo funebre per seguire ancora una volta il volo del calabrone. Era il 25 maggio del 1979 quando Vasco Rossi pubblicava un singolo destinato a diventare una delle power-ballad italiane più amate di tutti i tempi. Proprio alle porte del nuovo decennio, quello in cui tutto era destinato a cambiare, usciva il brano simbolo di quel tempo. Tutti gli altri, stanno ancora aspettando il suo cadavere.


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