Vecchia storia quella delle rivalità musicali. Per lo più inventate dai discografici per alimentare il mercato, perché si sa che sguazzare nella lite è uno sport altamente diffuso. Ed è proprio dallo sport che nasce lo spunto di creare competizioni inesistenti per infiammare il pubblico. Gli americani, veri geni del marketing, lo sanno bene che senza un nemico non c'è gusto. Il popolo ha bisogno di un "cattivo" da odiare e di un "buono" con cui schierarsi. È così che l'America ha inscenato guerre di conquista, facendole passare per guerre ideologiche, dove, naturalmente, i "buoni" erano sempre loro.
Ma quando si tratta di sport o di musica la cosa si complica, perché non si può generare un dissidio tra bene e male assoluto, bisogna puntare direttamente alle preferenze dei fan e capire dove tira il vento.
Gli esempi sportivi sono tantissimi, mentre in musica questa "pratica" inizia con Beatles e Rolling Stones negli anni '60 (a dire il vero comincia un po' prima con Elvis e tutto il resto del rock'n'roll, ma è storia troppo lunga e complessa per essere sintetizzata qui).
Beatles e Rolling Stones dicevo. Per Brian Epstein, il manager dei FabFour, l'imperativo è uno e uno solo: puntare sull'immagine da bravi ragazzi per non destabilizzare le famiglie, perché i giovani non hanno potere d'acquisto autonomo e se i genitori si mettono di traverso addio vendite. Quindi vestiti sobri e caschetto un po' infantile, profilo rassicurante e niente atti sovversivi.
Quale sarà la contromossa del manager dei Rolling Stones? Metterla sullo stesso piano è impossibile, guerra persa in partenza, il blues degli Stones non funziona se slegato dall'aura di musica del diavolo. E allora, con la medesima strategia confezionata a tavolino, sono Jagger e gli altri a diventare "cattivi".
Intendiamoci, non c'è nulla di vero in tutto questo. Beatles e Stones non erano affatto "nemici", basti pensare che il primo brano inciso dalla band di Mick e Keith porta la firma di Lennon e McCartney. E si aggiunga che a trovare un manager agli Stones ci pensò George Harrison.
Solo che ai festini a base di sesso e droga, quando irrompeva la polizia, i Beatles venivano fatti uscire incolumi dal retro, mentre gli Stones venivano arrestati. Come se un'intera nazione fosse complice nel creare il falso mito dei buoni e dei cattivi nelle due band. E in realtà è andata esattamente così, perché l'Inghilterra in piena crisi aveva trovato un nuovo polmone economico proprio grazie alla musica emergente. D'altra parte la lezione dell'ex colonia era stata imparata bene e di lì a poco avrebbe generato una sorta di riconquista territoriale passata alla storia come "British Invasion". L'immediato futuro sarà quindi un florilegio di duelli epici tra gruppi musicali, sulla scorta del successo commerciale ottenuto da Beatles e Stones, con rivalità che travalicano i generi e diventano il principale elemento promozionale, la più efficace strategia di marketing possibile. Costringere il pubblico a schierarsi, a scegliere da che parte stare, alimenta l'aspetto fideistico già molto presente nel rock. I fan devono mettersi in gara tra loro per aiutare i propri idoli a superare i competitors e per farlo sono disposti a tutto, spendendo tanto tanto denaro e arricchendo le case discografiche. Ma se negli anni '60 e '70 questo aspetto ha i connotati di una religione, è negli anni '80 che esplode la vera e propria mania del "l'un contro l'altro armati". Una definizione bellica che, guarda caso, negli anni dello yuppismo e della rincorsa al successo a tutti i costi, diventa un protocollo di formazione per manager rampanti. Negli anni '80 la competizione si sposta su tutti i livelli e coinvolge anche classi sociali che prima avevano fatto della solidarietà e della coesione l'unico possibile contraltare al dislivello sociale. La musica cambia, ma non cambia il paradigma di marketing che anzi, si inasprisce ancor di più sul principio delle fazioni contrapposte, "l'un contro l'altro armati", appunto. L'unico piccolo problema è che il piano della rivalità non può più essere quello dei "buoni" e dei "cattivi". Negli anni del reaganismo i cattivi possono essere solo sovietici, comunisti e antiamericani. Niente che abbia appeal di mercato nell'Occidente ipertrofico e superindustrializzato, insomma. Allora il principio di marketing assume l'altro possibile profilo: se non si può mettere in gara per diversità, lo si fa per analogia.
I prescelti si chiamano Duran Duran, band di Birmingham capitanata da un patinatissimo frontman di nome Simon Le Bon (nome vero, quando si dice il destino!), partiti con un raffinatissimo synth-pop alla Roxy Music e testi inneggianti a Kerouc e Fitzgerard con perfino una certa pretesa ideologica. La EMI li mette sotto contratto, ne ripulisce gli spigoli,
confeziona per loro un look aggressivo e glam allo stesso tempo e li manda nella mischia, puntando anche su una certa avvenenza estetica che con l'avvento dei videoclip era diventata un altro fattore di marketing cruciale. Non resta che trovare il contraltare, il "nemico".
Ci pensa il principale competitor della EMI (come è ovvio che sia) a scovare la band giusta. I talent scout della Chrysalis tirano fuori dall'underground londinese un gruppo new wave con influenze funk e rythm'n'blues, lo dirottano verso il new romantic pop e ne fanno il principale antagonista dei Duran Duran.
Il loro nome "Spandau Ballet", suona bene, ha quel tocco francese un po' vezzoso che alimenta l'aspetto glamour, e poco importa se il gruppo in realtà avesse scelto quel nome per ricordare la barbarie nazista (con una buona dose di cinica ironia, veniva chiamato "Spandau Ballet" il macabro penzolare dei cadaveri impiccati dei criminali nazisti, mandati alla forca dopo il processo di Norimberga).
La battaglia tra band (entrambe inglesi come i loro illustri predecessori) ha inizio. Non ci saranno vincitori né vinti, tranne il portafogli delle rispettive case discografiche, ma alla lunga il repertorio più ricco dei primi finirà per sovrastare i meno aggressivi Spandau. Come per Beatles e Stones, un leggero vantaggio in termini di fanbase è sempre stato verso i Duran Duran, ma tutto sommato si può dire che le fazioni si erano abbastanza equamente distribuite almeno fino ai primi due album. Poi la maggior creatività, una più pervasiva presenza mediatica e anche, se vogliamo, un pizzico di tecnica superiore, ha fatto propendere la bilancia decisamente a favore della band di Simon Le Bon e John Taylor. Mettiamoci pure che questi ultimi riuscivano a infiammare i cuori delle teen ager generando un'ulteriore competizione nella competizione, questa volta tutta interna, tra chi fosse il più "figo" dei due. Manna dal cielo per la EMI, che a quel punto aveva due assi nella manica e poteva giocarli a piacimento. Tony Hadley, il frontman degli Spandau Ballet, nato il 2 giugno del 1960, non poteva competere in termini di carisma con Le Bon, complice un aspetto troppo "retrò" che abbinato alla voce da crooner gli conferiva un estetica poco "maledetta" (e si sa, il fascino del maudit...). A compensare in parte provvedeva il bassista, Martin Kemp, decisamente più "cool", che però pareggiava i conti con il suo omologo Taylor lasciando scoperta la posizione di Hadley contro i colpi micidiali a suon di sex appeal inferti dal cantante dei Duran. Alla fine, entrambi i territori, quello del glam e quello musicale, appaiono conquistati dal gruppo di Birmingham. Ma proprio quando tutto sembra perduto arriva la scintilla che riporta l'equilibrio.
Il colpo di grazia per gli Spandau sembrava proprio arrivato quando i Duran Duran li sfidarono sul loro territorio. Se prima una certa verve più rock di Le Bon e compagni aveva creato una leggera distinzione tra i generi delle due band, con "Save a Prayer" i Duran Duran entrano a gamba tesa nella pop ballad e si prendono pure quell'ultimo, esimio margine di possibile equilibrio tra loro e gli Spandau Ballet.
È un altro di quei singoli dal successo clamoroso, ma questa volta gioca in casa degli avversari, diventando un caposaldo del new romantic pop, dove le chitarre si mettono in disparte e tastiere e synth diventano protagonisti, come fino a quel momento era stato per gli Spandau.
Ci mette ben quattro anni la band di Tony Hadley a rispondere. Un periodo nel quale la loro etichetta di "eterni secondi" stava per diventare talmente ingombrante da far rischiare lo scioglimento del gruppo. Una frustrazione non dissimile a quella di Brian Wilson dei Beach Boys, che ai tempi della gloriosa battaglia a suon di capolavori con i Beatles, si vedeva sempre superare dai quattro di Liverpool, fino a piombare in una cupa, disperata depressione. Invece nel 1986 avviene il miracolo. A lasciare l'impronta definitiva sugli anni '80 è un arpeggio di chitarra acustica alla "vecchia maniera", una ballad tutta suonata, con intervento di produzione delicatissimo, quasi nessun suono elettronico, nessun synth, niente che possa connotarla temporalmente, tanto da farla resistere intatta anche dopo che gli anni '80 sono andati abbondantemente in cantina. Con "Through the Barricades" gli eterni secondi si prendono la loro rivincita e salgono finalmente indisturbati sul tetto del mondo. Anche loro hanno dovuto spostarsi dalla comfort zone, dal territorio di appartenenza e per capirlo è stato necessario un lustro di sottomissione a un mercato che li vedeva perdenti di fronte ai loro rivali storici. E hanno dovuto rispolverare vecchie passioni, inclusa una certa ideologia. Così, mentre i wild boys si inabissavano insieme al tramonto del decennio, le ragazze in topless dei videoclip non rappresentavano più la trasgressione, i capelli biondi cotonati e l'edonismo sbandierato su costose barche a vela non erano più la cifra stilistica di riferimento, a restare oltre la patina di effimero c'è una canzone semplice, suonata alla vecchia maniera, che ancora oggi emoziona come allora. Buon compleanno Tony Hadley. E ancora grazie per averci regalato quello spiraglio di luce tra le barricate.
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