Parlare di “Sulla strada” e di Jack Kerouac è come parlare delle mie vene o della mia circolazione sanguigna, tanto questo libro e il suo autore, mi abitano nel profondo.
Ho letto “On the road” quando avevo 16 anni, nel lontano 1988; il mondo era ancora quello novecentesco e la vita mi aveva già donato una bella sberla.
Quel ragazzo che allora ero, chiuso in camera sua, consigliato da uno scontroso ma scafato insegnante di Italiano, lesse per la prima volta il famoso incipit: “Mi ero appena rimesso da una seria malattia della quale non vale la pena di parlare, se non perché aveva a che fare con quella separazione avvilente e penosa e con la sensazione di morte che si era impadronita di me. Con l’arrivo di Dean Moriarty, cominciò quella parte della mia vita che si può chiamare la mia vita sulla strada".
Da quel momento in poi Kerouac e “Sulla strada", hanno fatto parte di me e non perché abbia vissuto come Dean Moriarty e Sal Paradise (al secolo Neal Cassady e Jack Kerouac), bensì perché quel libro ha parlato alla mia insoddisfazione, alla mia angoscia, alla mia voglia di libertà. Al tempo ero in fuga e “On the road” è la storia di un’esistenza vissuta come una fuga.
Kerouac attraverso i suoi viaggi, attraverso i molteplici slanci seguiti da altrettanti fallimenti, mi diceva: “Sii libero, anche se fa paura perché questa paura è la cosa migliore che hai adesso fra le mani”.
Il libro è la storia di una serie di viaggi in autostop, in macchina, in treno, in autobus, attraverso i grandi spazi del territorio americano, dell'America profonda alternativa a quella borghese e ordinaria.
È la storia di una vita svincolata da ogni rapporto con la normalità e col principio di autorità.
Nel suo peregrinare, il protagonista incontra uomini e donne di strada, ma anche poeti, scrittori, intellettuali e ne scrive con un linguaggio che “non è registrato nelle grammatiche" (Fernanda Pivano Introduzione a “Sulla Strada” 1958).
I giovani personaggi del romanzo compiono tutti gli atti che non si dovrebbero mai compiere, secondo il punto di vista del comune buon senso: vivono come vagabondi, fanno ampio uso di alcool e droga e “urlano” (“The howl", Allen Ginsberg), la loro energia, la loro voglia di vita che si avvicina, in questo modo, al rischio estremo dell’implosione di tutte le energie, cioè alla morte.
Ma a chi di noi, in un particolare momento dell’esistenza, non è capitato di pensare, riportando ormai una delle frasi più citate del romanzo: “Dove andiamo”? E poi la risposta è venuta immediatamente da sola: “Non lo so, ma dobbiamo andare”.
Kerouac era in ricerca, alla ricerca di una realtà che fosse “vera” e che superasse quella inautentica in cui si era trovato a vivere insieme alla sua generazione.
Era alla ricerca di qualcosa in cui credere, che andasse oltre i valori morali fino ad allora conosciuti.
Qui emerge il discorso di Kerouac sull’individualità, la quale viene stimolata con ogni mezzo, compresa la musica jazz vissuta come improvvisazione cioè come estrema espressione di libertà interiore.
La droga, l'alcool, il sesso e la musica sono quindi mezzi per cercare di rimettere al centro della vita la propria identità per una via, in qualche modo, mistica.
I giovani della beat-generation agiscono allo stesso modo degli antichi alchimisti, che cercavano la rinascita spirituale tramite la pericolosa “via della mano sinistra".
Per raggiungere questa nuova frontiera dello spirito, bisogna però essere fedeli alla libertà soggettiva e ai rischi che essa comporta. Alla fine di questo percorso può esserci sia l’autodistruzione che l'autorealizzazione.
È questione di centimetri.
Infatti i critici più ortodossi di “Sulla strada” hanno accusato il libro di essere la descrizione di un continuo “bruciare” senza senso e senza scopo.
Non si sono accorti, allora come oggi, del ritmo presente all’interno di quelle pagine.
Come nell’inspirazione e nella espirazione, come nel battito cardiaco, la vita nel libro ha un ritmo, come lo ha la scrittura di Kerouac.
Ed è il ritmo frenetico del Be-bop, dove le parole stesse si fanno musica.
Quella musica che Kerouac ascoltava nei piccoli e bui jazz club dove si ritrovava con i suoi compagni di viaggio:
“Il bop nacque con il jazz, ma un pomeriggio da qualche parte, su un marciapiede nel 1939 o nel ’40. Dizzy Gillespie o Charlie Parker o Thelonius Monk, stava camminando davanti ad un negozio di abiti da uomo sulla quarantaduesima strada a New York o su South main a Los Angeles e da un altoparlante all’improvviso sentì un folle, impossibile errore nella musica jazz, un errore che avrebbe potuto avvertirsi solo nella mente immaginifica di uno di loro. Era una nuova arte, il bop" (Jack Kerouac La nascita del bop 1959 rivista Escape).
Jack Kerouac ci ha quindi lasciato in eredità una fede instancabile nella libertà individuale e la descrizione del ritmo profondo della vita emotiva.
E anche oggi che ho i capelli grigi, la pancia, un lavoro, una moglie e un figlio, mi rendo conto che anche se il viaggio non è la soluzione definitiva, in certi momenti, non c’è altra soluzione che mettersi di nuovo in viaggio.
On the road again.
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